La recensione: Lo chiamavano Jeeg Robot
di Francesco “Ciccio” Capozzi
Enzo è un introverso malavitoso, come Lo Zingaro: improvvisamente entra in possesso di super poteri e quindi incontra Alessia, bella ma un po’ fuori.
Un’opera piuttosto coraggiosa: è una favola immersa nella realtà.
Il film (ITA, ‘15) è diretto e prodotto da Gabriele Mainetti, ed è il suo primo lungometraggio. È sceneggiato da Nicola Guaglianone, e da Menotti, alias Roberto Marchionni, che hanno scelto risolutamente l’approccio avventuroso ma immerso nell’assoluto realismo delle periferie della città. Qui è Tor Bella Monaca cui sceneggiatori e attori fanno riferimento nella vita.
Enzo è un cattivo sospeso: nel senso che si lascia sopravvivere come un sommerso della società. I suoi superpoteri lo lasciano meravigliato e impaurito. È lei a portare quel che di favolistico che avvolge la narrazione su questi coatti, dando “un senso” a questi poteri, e il nome Jeeg.
Alessia è come rifugiata in un mondo di sogno in cui cercare una dimensione di protezione dagli abusi del padre. Educa Enzo al sentimento.
Il film vibra di vita autentica. Operazione stilistico-espressiva che rende coerente il tratto narrativo, senza compiacimenti. Ad esempio lo Zingaro a un certo punto si mette a cantare mimando Anna Oxa. L’esibizione spiazzante, che cattura, in quel personaggio “ci sta”, perché descrive la sua indole.
L’attore Luca Marinelli è calato nella schizofrenia fragile, intrisa di narcisismo. Un’altra folgorante apparizione è Alessia: Ilenia Pastorelli, non-attrice che viene dal “Grande Fratello”, funziona. Rende con dolorosa aderenza la sua leggiadra incoscienza nel librarsi tra follia infantile e nevrosi.
Claudio Santamaria, l’”eroe”, alla fine si accolla la missione di “salvare” il mondo: ma lo fa con ironia: al posto della tutina ha quel ridicolo copricapo all’uncinetto.