La recensione: Perfetti sconosciuti

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di Francesco “Ciccio” Capozzi

Quattro coppie più un single si vedono a cena: ad un certo punto la padrona di casa ha un’idea: rendere pubbliche le telefonate e gli sms ricevuti nella serata. Ognuno afferma di essere trasparente e il gioco può cominciare…

Questo è stato uno dei rari film (ITA, ‘16) che ha conciliato buone recensioni critiche e ampio gradimento del pubblico, che, in sordina e praticamente soprattutto col passaparola, lo sta facendo diventare uno degli hit della stagione. Non è che le premesse non vi fossero, sia delle une che dell’altro, ma le vie del successo al botteghino sono misteriose. Specie quando si ha a che fare con un film molto “parlato”, non segnatamente comico: piuttosto sul brillante ma in cui gli elementi drammatici e di più attenta riflessione sulle dinamiche di coppia e di famiglia, fanno capolino in modi anche dolorosi e dirompenti.

Evidentemente il regista Paolo Genovese ha saputo connettersi con gli umori profondi dei pubblici che stanno affollando le sale dove lo si proietta. A parte le dotte riflessioni dei sociologi, tutti intuiamo che quel device (aggeggio) che teniamo in tasca è diventato imprescindibile dal nostro vivere quotidiano: sa tutto e fa tutto. E in prospettiva farà e saprà ancora di più.

L’idea centrale è merito del regista, anche soggettista e cosceneggiatore, con all’attivo – fino ad ora – opere di qualità media, magari linde e piacevoli, ma non indimenticabili, e un corto assai simpatico del ‘98, diretto insieme al sodale Luca Miniero, da cui trassero nel 2001, invece, una mezza botta di film, “Incantesimo napoletano”.

I meriti del regista sono due: il primo, di aver attenzionato – come si dice nel linguaggio poliziottesco-amministrativo – un’attitudine sociale molto diffusa e di averla affrontata al modo della classica, storica commedia all’italiana. Genovese ha fatto tesoro delle modalità di tale approccio, che l’hanno resa un classico dell’intero cinema, non solo italiano, aggiornandola ai nostri dì, ovvero mettendo in campo su una problematica sociale odierna lo stesso tipo di considerazione brillante e “cattiva”, se non beffardamente pessimista nel medesimo tempo, che la caratterizzava. Perché se non c’è sarcasmo, e prevale il buonismo edulcorante, l’effetto comico diviene fine a se stesso: evapora e non incide sul nostro immaginario. Questa è la lezione di stile più intransigente, che rende, ad esempio, lo Zalone di “Sole a catinelle” preferibile all’ultimo “Quo vado”.

Il secondo merito è di essersi circondato di un manipolo di eccellenti sceneggiatori, proprio al fine di sfruttare al meglio l’idea geniale di base. In questo, come ha dichiarato, ha fatto proprio uno dei dettami di quel periodo aureo del nostro cinema: la collaborazione a più voci. Non era insolito in molti di quei film dagli anni ‘50 e fino al cuore degli ‘80 assistere a riunioni di numerosi sceneggiatori che sotto la guida del regista, elaboravano al meglio le battute e la precisazione dei personaggi, in uno spirito cooperativo e non di rado conviviale che si autoalimentava di intelligenza, ispirazione e inventiva.

E i nomi dei co-sceneggiatori sono di tutto rilievo, oltre a Genovese: Paolo Costella, che è anche un regista, Filippo Bologna, romanziere, Paola Mammini, sceneggiatrice professionista, Rolando  Ravello, attore e regista. Grazie a calibrati e attenti, spesso minuziosi, spunti e  pezzi di dialogo, hanno ben diversificato le dinamiche di coppia, palesi e nascoste, all’interno di una concentrata e ben differenziata considerazione individuale. E tutta è stata giocata su una coralità ben orchestrata, pimpante e divertente.

Anche da considerare che, per ottenere la maggiore adesione empatica possibile alle conseguenze dei disvelamenti, che la concatenazione e gli sviluppi del gioco avrebbero portato, il film è stato girato in tempo reale e in una location unica. Cioè i tempi della cena corrispondono a quelli del progress della  lavorazione del film.

È quasi superfluo sottolineare che il casting è stato perfetto: anzi esemplare. Gli attori, oltre che singolarmente efficaci, sono facce azzeccatissime. Marco Giallini è quello provvisto di maggiore equilibrio, umanità e sensibilità, sia nei confronti della moglie, psicologa-che-non capisce-se-stessa-e-gli-altri, l’incerta, forse superficiale ma sofferta Kasia Smutniak, che della figlia adolescente, cui è più generosamente e attentamente vicino.

Edoardo Leo, il più vuoto, ma confusionario, per non dire irresponsabile, sia personalmente che affettivamente: forse il più adolescenziale; con a fianco la moglie Alba Rohrwacher, che invece rivela personalità e onestà, oltre che forte solidarietà emotiva.

Valerio Mastandrea e Anna Foglietta, che vivono nel chiuso dell’intimità domestica le conseguenze di una vicenda di responsabilizzazione e di colpa che li sta sentimentalmente e personalmente consumando: fatti  poco ma bene accennati, chiari e dirompenti.

Giuseppe Battiston, il più sofferto perché il più sensibile e fragile, rispetto a scelte di vita non più rinviabili.

Quella cena è uno spaccato di un’Italia possibile. Molto significativo è il lavoro sia di illuminazione, curata da Fabrizio Lucci, un decano della commedia di qualità: la sua è un’omogeinizzazione cromatica che dà quel finto senso di sicurezza  e comfort, in cui si aggirano persone che non vogliono soffrire e dirsi le verità.

Come pure il montaggio, curato da Consuelo Catucci, una delle nostre più brave e versatili professioniste: riesce a dare quel senso di movimento all’interno di una struttura spaziale data e sempre identica, variando gli sguardi nostri attraverso l’uso stringato dei tempi di dialogo.

Ma la vera genialata del film è il sottofinale, quando la serata “finisce”: dal violento conflitto che pone col precedente, noi riceviamo un colpo in piena faccia che ci impone di soffermarci. E di riflettere su come il conformismo di gruppo, di relazioni e affettivo – quello delle finte verità su cui vogliamo continuare a basarci – quali distorsioni apra sulla nostra vita reale, sociale e individuale, presente e futura.

«Ognuno di noi ha tre vite: quella privata, la pubblica … quella segreta», Gabriel Garcia Marquez.