La recensione: The hateful eight

di Francesco “Ciccio” Capozzi

 

Pochi anni dopo la Guerra Civile americana (1861-1865), nel gelido Wyoming otto persone sono bloccate per una tormenta di neve. “Il Boia”, uno spregiudicato Bounty Killer, trasporta in catene l’assassina Daisy: e, tra fiumi di parole, si fa strada il sospetto che non tutti sono ciò che dicono di essere, fino allo scontro finale.

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Quentin Tarantino, regista del film (USA, ‘15) ama il cinema: fino ad ingurgitarne in quantità pantagrueliche. Però lo usa filtrandolo ed elaborandolo.

Uno dei suoi maestri è Sergio Leone: qui cita “Per qualche dollaro in più” (‘65). E poi c’è la sua icona musicale, Ennio Morricone.

E ancora c’è un altro di quei misconosciuti ma validi professionisti degli anni ‘70 italiani: Sergio Corbucci e il suo”Il grande silenzio” (‘67) – pure musicato da Morricone – on location su un suggestivo paesaggio innevato.

Hateful eight si svolge in un unico ambiente, con l’uso dell’angolatura da 70mm, che dà, come ha detto il regista, un senso di sfondo inglobante continuamente tutti i personaggi, ne dilata le sue dimensioni, quasi rendendolo astratto.

I personaggi passano dallo sbrodolo verbale, con la stessa aria sardonica, ad un’interazione fisica feroce. Però in quelle fiondate di parole rivivono le tensioni sociali: la Guerra Civile, e il problema non risolto della schiavitù dei neri. In ciò il regista dà valore anche politico al suo narrare.

Il film sembra lento: ma dall’inizio deve preparare l’atmosfera di sospetto hitchockiano, per poi precipitare. Come in “Pulp Fiction”, i “capitoli”, come vengono nominati da lui, non sono come li vediamo: il “Capitolo 5”, prima di quello finale, precede il primo, ne è l’antefatto. Ma ciò potenzia il suo impatto. Il puzzle si è ricombinato: in questo il film è anche un “giallo”.