Mangio pasta: sono pasta? Di Giuseppe Iaquinta, medico di famiglia, proscrittore e … scrittore

maccaronari“Der Mensch ist war er isst”, sosteneva il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach. Traduco a beneficio dell’unico lettore che leggerà quest’articolo e che magari non conosce la lingua germanica: “L’uomo è ciò che mangia”. Già molti filosofi,  partendo  da Platone e Aristotele per finire col mio tabaccaio, ci hanno ammoniti che non si può ragionare se la pancia è vuota; “Primum vivere, deinde philosophari” mi ha graziosamente proclamato Alfreduccio, un parcheggiatore abusivo tossicodipendente a via Marina mentre si metteva in saccoccia i miei due euri. Ma se questi ultimi hanno punzecchiato con qualche colpo di fioretto il nostro eccessivo idealismo con le annesse pretese di essere nient’altro che dei fabbricanti di pensiero in attesa di diventare a nostra volta, dopo questa vita, una bella … pensata, il fondatore dell’ateismo ottocentesco gli ha dato addosso a colpi di randello: “Ma chi ti credi di essere, uomo, solo perché imbratti una tela, scarabocchi un foglio di carta con parole che ti suonano bene o che pretendono di dilettare o edificare lo spirito: un artista? Un poeta? Uno scrittore? Addirittura un pensatore? Ah ah ah, che ridere! … Ieri che ti ha preparato da mangiare  tua moglie:  non te lo ricordi? Te lo dico io: hai mangiato zuppa di cavolo! La  tua giacca  è ancora impregnata della fragranza di quell’ostico ortaggio. Quanto ci hai messo a digerirla? Quattordici ore? Esagerato: dopo te lo  do io l’indirizzo di un bravo gastroenterologo, ricordamelo … Ebbene, mio caro, dal ruttino liberatorio fino al pasto successivo tu sei stato zuppa di cavolo, nient’altro che zuppa di cavolo!”

“Cavolo! Ma … è terribile: io credevo che … mi vantavo di … Mah, meglio non pensarci! Ho fatto una nottataccia: l’ho passata più in bagno che a letto; mi sono sentito una schifezza fino a due ore fa, quando finalmente sono riuscito di nuovo a pranzare; in tutte queste ore sono stato tormentato dai più cupi pensieri – veramente pensieri del cavolo –  e tu mi dici, orrore, che la mia anima e il mio corpo sono stati oggetto di una metamorfosi, ancora più schifosa di quella toccata in sorte a Kafka che una bella mattina si ammirò scarrafone nello specchio: ho mangiato zuppa di cavolo e sono diventato zuppa di cavolo?”

“Proprio così!”

“Ma allora … adesso che ho appena digerito lo stinco di maiale con contorno di crauti in agrodolce – sai com’è, qui, in Sassonia, mangiamo pure le pietre: è nel nostro DNA, come pure nella nostra etimologia – per te io sarei … uno stinco di maiale?”

“Con contorno di crauti!”

“Ma non è possibile: passi pure per il panta rei, il “tutto scorre”, ma se ogni volta che mangio io divento qualcosa di diverso – a meno che non mi converta ad un’unica pietanza per tutta la vita che mi resta da vivere – non ci sarebbe nessuna sostanziale differenza tra me ed un’ameba che muta di continuo la sua forma e la sua sostanza? Non avrei più una mia essenza: sarei preda di una sconvolgente crisi d’identità, quella sì impossibile da digerire …”

“Ma no, rincuorati: un’identità tua ce l’hai, come individuo e come appartenenza ad un popolo. Questa identità la puoi ritrovare nell’alimento che ricorre più spesso nella tua dieta e in quella della nostra amata nazione germanica.”

“ Ehm … la patata? Io, in qualità di mangiapatate, sarei quindi una patata che in questo momento sta parlando e ragionando con un’altra patata?”

“Precisamente!”

“Ma tu guarda che bel guadagno a dissertare con un filosofo: mi vantavo uomo, mi ritrovo patata! E allora i nostri amati-odiati vicini francesi che si rimpinzano di lumache, sarebbero dei …”

“Lumaconi!”

“E i norvegesi?”

“Stoccafissi!”

“Gli spagnoli?”

“Paelle!”

“E i giapponesi, con la loro mania di titillarsi il palato col pesce crudo?”

“Sushiammocca!”

“Ah ah ah, mi sta divertendo questa litania … E … gli americani, che mangiano un sacco di fetenzie?”

“Schifezze!”

“Ehm … io ci andrei più cauto con i nipoti dello zio Sam: quelli hanno la crociera facile con scalo in Normandia e … poi va a finire che ci vengono a secutà … Solo un’ultima curiosità – prima di mandarti a … piantare cavoli – E gli italiani, i più voraci divoratori di pasta al mondo?”

“Mangiaspaghetti! Anche se tra di loro c’è un po’ di buontemponi, che vorrebbero mettersi in proprio, che sono ghiotti di mais: i polentoni!”…

Spero che non difetti il senso dell’umorismo al grande filosofo tedesco, dovunque cavolo si trovi adesso, e sorrida con me bonariamente di questo scherzoso dialogo che la mia follia ha immaginato tra lui ed un suo allievo.

Non si può certo negare che l’uomo, nel mangiare, fa suo l’ambiente che lo circonda, assimilandone quanto di buono e prezioso per la propria esistenza esso contiene, mentre il mondo, sia animale che vegetale nonché minerale, non fa un grosso affare nell’umanizzarsi . C’è però da osservare che questa complicata specie animale cui apparteniamo, nella scelta del cibo si fa guidare, ovviamente quando può scegliere, a differenza dalle altre specie che possono affidarsi solo al loro istinto, da due categorie non naturali: la volontà e il desiderio, per cui qualche acuto pensatore propone un nuovo aforisma che faccia giustizia di quello di Feuerbach, ritenuto un tantino “irriverente” verso la discendenza di Adamo, in quanto ci assimila agli esseri animali: “L’uomo è come mangia!” Il rapporto tra cibo e umanità è mediato cioè dalla sua cultura, spesso molto sofisticata. Ciò non si traduce sempre in un vantaggio per gli uomini, soprattutto quando appartengono alla categoria economicamente più sviluppata; infatti, oltre che tendere ad abbandonarsi ad eccessi dannosi per la salute, spesso attribuiscono al cibo vari significati ed attenzioni che spesso sfociano in vere e proprie ossessioni. Il cibo può diventare così una bandiera della identità personale, come una dieta o il vegetarianismo, o dell’identità di una famiglia, di una comunità o di un territorio. Ciò si può tradurre in valori positivi, vantaggiosi, come la tutela di prodotti tipici, il richiamo a valori culturali autentici, la dieta mediterranea.  Talvolta invece l’attribuzione di un eccesso di significati ad un tipo di alimentazione rischia di favorire la nascita di comunità chiuse in se stesse, a volta in opposizione ad altre, che fanno dell’alimentazione un proprio “credo”, come una setta religiosa, da contrapporre all’alterità. Al contrario poi si può assistere all’adesione a nuove diete, come nuove mode da seguire, che spesso sfociano in “nevrosi nutrizioniste” individuali o collettive.

Io mi vanto di essere un macaroni mangiaspaghetti, di appartenere cioè a quel popolo che è il maggiore produttore nonché consumatore di pasta al mondo.

Uno di quei poveracci che la notte non riesce a prendere sonno se prima non dà qualche numero, ci informa che in media, nelle nostre italiche pance, transitano ventotto chilogrammi di pasta all’anno. Sono nato in Basilicata, una terra dove la pasta, specialmente quella fresca, fatta in casa, prima che alimento è vero e proprio culto. Ne divoro, perfettamente in media coi miei corregionali, più o meno quarantacinque chili all’anno: giusto quanto pesa mia moglie (che non è commestibile). Se una domenica ci onorerete a pranzo a Vietri di Potenza, presso una famiglia o in una trattoria – è lo stesso – dopo l’antipasto vi vedrete piazzare davanti  un monumento fumante: una piramide di fusilli cavatielli che stravolgeranno le leggi della fisica per non tracimare dal piatto. Quando, dopo il vostro iniziale sbigottimento che ci procurerà quel divertimento che di per sé già ci ripagherà dell’avervi invitati, la vostra forchetta avrà individuato un punto dove cominciare la demolizione di quel ben di Dio, vi accorgerete che non è stata affatto trascurata la qualità di quella vivanda. Ma – che monsignor Della Casa ci perdoni – è innanzitutto sulla quantità della pasta che noi lucani rivolgiamo le nostre premure. Affinché il rito del pranzo domenicale venga celebrato al meglio, senza sbavature, fatti salve gli schizzi di sugo con cui ognuno aspergerà la candida camicia bianca del suo vicino di tavola, il nostro piatto di pastasciutta deve essere molto abbondante, come se … dovesse placare una fame storica, atavica. Secondo alcuni studiosi l’etimologia della parola Lucania deriva da “lupo”: quindi “terra dei lupi”; il nostro appetito è quindi da lupi! E quanto ci sentiamo bene dopo un buon piatto di pasta! Non si tratta soltanto di qual piacevole e vago senso di sazietà: è qualcosa di più e di diverso. Perdonatemi il confronto un poco irriverente: è la stessa sensazione di benessere fisico e psichico, quel sentirsi senza più sensi di colpa e in perfetta armonia con la propria coscienza e con il prossimo che si prova la domenica mattina uscendo dalla chiesa dopo aver ascoltato una messa che magari è durata due ore, condita da una decina di canti succosi, insaporita da una predica lunga e pepata di cui siamo riusciti pure ad afferrare qualche concetto, tra un sonnellino e l’altro, e, soprattutto, dopo che ci siamo fatti pure la santa comunione! Gesù, ben prima e meglio di Feuerbach, da buon figlio di Dio, era consapevole che si è ciò che si mangia. Dunque cosa poteva inventarsi di meglio che farsi pane perché l’uomo, mangiandone, si nutrisse del suo corpo e del suo spirito per diventare, a sua volta, anche lui figlio di Dio e meritarsi il paradiso? Da quel Padre non poteva che nascere un genio! Ora, tornando alle piccole ma non per questo non belle vicende di questo mondo, perché quando mangiamo un bel piatto di pasta, specialmente se condividiamo questo piacere con chi ci è caro, prima, durante e dopo ci sentiamo felici? Per quanto superbamente conditi da un buon sugo non mi risulta che i miei trecentosettantasette grammi di spaghetti – guai a chi dovesse recapitare una copia di questa rivista alla mia dietologa – siano stati consacrati da una qualche divinità. Dove sta allora il trucco, se trucco c’è? Un secondo studioso che abita sullo stesso pianerottolo di quello precedente, anche lui tormentato dall’insonnia – pare che spesso tirano l’alba giocando insieme a ramino – sostiene che nella pasta si annida nientemeno che il triptofano, una sostanza che poi, in un piccolo ma ben attrezzato laboratorio ben nascosto nelle circonvoluzioni del nostro cervello, viene trasformata in serotonina: l’ormone della felicità. Ecco perché quando mangiamo la pasta proviamo una sensazione di benessere e di piacere. Sì, avete capito bene: la pasta è una droga, come l’hascisc! Pensate: un piatto di bucatini è praticamente una canna e ogni forchettata l’equivalente di una boccata a pieni polmoni. E l’Italia è peggio della Colombia, infestata – Dio ti ringrazio – dai più grandicartelli di produttori mondiali (Voiello, Barilla, De Cecco …) di questa nostra droga che, ma tu guarda che combinazione, si ricava da una polverina bianca molto simile alla cocaina, chiamata farina! Il suo spaccio è diffuso in modo capillare: dai Carrefour alla botteguccia all’angolo del nostro vicolo puoi trovare sempre un pusher pronto a fornirtene. E se pure dovesse venire la peste con annessa moria di spacciatori te la puoi sempre fare in casa, fresca, con le tue manine e un mattarello.

E allora, visto che la mia buona sorte mi ha fatto nascere sotto il cielo dell’italico stivale, la ringrazio con tutto il mio cuore e con tutto il mio pancione perché ha fatto di me un mangiatore di pasta, quindi un predestinato al buon umore. Grazie pure a te, caro Ludwig, che nel mondo della verità sicuramente avrai abiurato la tua mesta fede nel cavolo e nei crauti per abbracciare quella, gioiosa, nel raviolo e nelle tagliatelle; grazie di avermi illuminato nella scrittura di questo scherzo.

Sono quel che mangio. Mangio pasta, quindi sono pasta? Lo sarei, se non potessi scegliere; sarei, in quella malaugurata evenienza, un impasto informe di semola e acqua. Ma il buon Dio ha aggiunto nel mio corpo un pizzico di lievito che ha chiamato volontà, e allora io posso scegliere come mangiare. E allora non sono quel che mangio ma come mangio. E vi dirò di più: mangio come vorrei essere. Vi sembra uno scioglilingua? Seguitemi, allora: vorrei che un momento bello della mia vita rimanesse trattenuto più a lungo nelle pieghe della mia anima? Trecento grammi di penne rigate: trattengono di più il sugo! Che posso fare affinché un dispiacere scivoli subito via dal mio cuore? Duecento grammi di penne lisce: il condimento vi scorre via come su di una saponetta! Mi piacerebbe che i miei  pensieri, cupi e contorti, si facessero più lineari e coerenti? Dieci matasse di pappardelle all’uovo: cinque minuti nei profondi vortici di un pentolone di acqua bollente ed ecco che si fanno lunghe e sicure come un rettilineo in terra di Puglia! Mi sento angosciato dai vuoti esistenziali? Venti ravioloni stracolmi di ricotta e spinaci: ti riempiono anche il più piccolo pertugio nella pancia come nella coscienza!

Potrei continuare ancora a lungo, ma sono le tre del mattino e il mio stomaco brontola per un certo languorino;  e brontola pure l’acqua nella pentola che sollecita un tuffo carpiato con doppio avvitamento ai miei quattrocento grammi di spaghetti che già si sono sfilati l’accappatoio e sono pronti ad entrare nel mio pugno che farà loro da trampolino. Nel tegamino l’aglio è già bello dorato, insieme al peperoncino, nel magnifico olio della mia terra e il prezzemolino fresco, già sminuzzato, è pronto a conferire al tutto una fresca e poetica nota bucolica.

Favorite!

 Giuseppe Iaquinta*

*medico, scrittore