Parliamo napoletano, regaliamo radici
di Francesco De Crescenzo
È giusto pretendere il meglio per i propri figli, dar loro una buona educazione e una buona preparazione scolastica. Ma è anche giusto trasferire loro le nostre conoscenze, le nostre tradizioni, la nostra lingua.
Ancora oggi ci sono genitori napoletani che dicono ai figli; «Parla bene, parla italiano». Va bene sapersi esprimere in un italiano fluente e senza inflessioni, al fine di un adeguato inserimento nel mondo del lavoro. Ma non bisogna dimenticare le proprie radici, specie quando hanno origini antiche, e ancor di più quando, nello specifico, parliamo di una lingua e non un dialetto, il napoletano, che è la seconda più parlata in Italia, riconosciuta dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità e rinnegata invece da chi dovrebbe farne un vanto…
Nel corso degli anni, dopo il fatidico 1861, la lingua napolitana è andata via via “sporcandosi”: soprattutto fra i giovani, sono tanti i termini del napoletano che stanno assumendo connotati poco riconducibili al vero ed originale significato di quel vocabolo.
Per questo già nel 1977, nella Carta dei dialetti d’Italia, all’art.1 riguardante la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, così scriveva in napoletano il linguista G.B.Pellegrini: «Tutte ll’uommene nascene libbere e cu’ uguale dignità e deritte; tenene raggione e cuscienza e hann’a operà ll’uno cù ll’ate cu’ nu spirite ‘e fratellanza».
Io purtroppo non ho la fortuna di essere padre, e se lo dovessi diventare non so se riuscirei ad essere all’altezza, ma di sicuro insegnerei a mio figlio ad amare la nostra lingua antica. Ancora oggi ci sono termini ed espressioni che risalgono addirittura ai greci, nostri progenitori.
Una lingua quindi di origini millenarie, ma anche multietnica che ha inglobato nel corso dei secoli lemmi provenienti da varie lingue: spagnola, araba, inglese e, come già detto, anche dal greco antico. E ovviamente dal latino, idioma da cui deriva.
A mio figlio non farei guardare la tv, non ne avrebbe il tempo, non ce n’è sarebbe il bisogno, lo porterei in giro tra i vicoli, le piazze e le strade di Napoli, una full immersion nella storia secolare di questa meravigliosa città, come faceva mio padre con me.
Viaggeremmo insieme con la fantasia, in altre epoche, rivivremmo i fasti, l’epoca dei primati e del benessere del Regno di Napoli e delle Due Sicilie.
Mi inventerei storie che racconterei rigorosamente solo in napoletano, oppure, se la fantasia dovesse esaurirsi, gli leggerei le poesie di Totò, gli leggerei Viviani, gli canterei Di Giacomo, Luna Rossa di De Crescenzo e magari nu’ bello Pino Daniele. E a Natale proverei a recitargli Eduardo, magari mentre mi accingo ad abbozzare un presepio per poi chiedergli: «Te piace? »
E se proprio tutto questo non dovesse ancora bastare gli leggerei Lo cunto de li cunti scritto da Basile in quell’antico e melodioso napoletano del 1600, spiegandogli poi che la scala famosa, dove Basile immaginò che Cenerentola perdesse la sua scarpina, è molto probabilmente quella del nostro Palazzo Reale …
Insomma, se volete bene ai vostri figli e amate la nostra Napoli, non rinnegate le nostre radici ma regalatele a loro, ne farete napoletani fieri: saranno loro a portare avanti le nostre tradizioni, saranno loro a riscattare la nostra identità di popolo,
E magari un giorno, quando saranno genitori, diranno ai vostri nipoti: «Parla bbuono, parla napulitano»…