Terror Haza, il museo del dolore

di Francesca Mancini

BUDAPEST – La capitale ungherese s’inserisce, a buon diritto, tra le città preferite dai turisti di tutto il mondo, per l’ingente panorama di attrazioni e svaghi che si trovano al suo interno. Ma al di là dell’ottima gastronomia e della vasta scelta di rilassanti bagni termali, una visita esauriente della città non può muoversi unicamente lungo l’itinerario delle sue luci, trascurandone le ombre.

Ed è per questo che, a chi sia intenzionato a conoscere la città e la sua storia, anche nei suoi aspetti meno luminosi, è consigliato percorrere il vasto viale Andrassy, dov’è situato un insolito museo. Come suggerisce il nome “Terror Haza” (Casa del Terrore) si tratta di un minaccioso edificio, un tempo quartier generale della polizia politica ungherese sia nazista che comunista.

Il palazzo, di gigantesche proporzioni, sul quale si profila la scritta “Terror”, si eleva a memento inquietante di un periodo storico di evidente complessità, non privo di contraddizioni ed inquietanti verità, ed è stato istituito come memoriale per le numerose vittime di entrambi i regimi. Restaurato ed aperto al pubblico nel 2002, il museo è stato voluto dal primo ministro ungherese Viktor Orbàn ed è diretto, fin dalla sua fondazione, da Mária Schmidt.

Il percorso è strutturato in modo tale che il visitatore sia guidato, attraverso stanze e cunicoli, dal primo piano fino al terzo, ripercorrendo la storia dell’Ungheria dall’inizio del Nazismo fino alla caduta del Comunismo. Collocato al primo piano dell’edificio, un monumentale carro armato è posto accanto ad un muro sul quale spiccano i volti di numerosi perseguitati politici.

Proseguendo nella visita, ci si imbatte in un cospicuo materiale cartaceo e multimediale che riempie le stanze, ricostruite nei dettagli, così come dovevano essere tra il 1944 ed il 1956. C’è inoltre la possibilità di ascoltare stralci di conversazioni dai telefoni disposti lungo le pareti. E ancora: nella sala del consiglio due divise quasi identiche ruotano su di un piedistallo mobile: in realtà si tratta delle uniformi ufficiali della doppia occupazione che ben mostrano la continuità del terrore e della soppressione di ogni libertà.

Procedendo, si giunge alla biblioteca. L’allusione è ai libri messi all’indice e sottoposti alla censura. Si passa poi attraverso una sala, le cui pareti sono colme di immagini colorate di propaganda, allusivi messaggi subliminali che suggerivano (o meglio imprimevano nelle mente delle persone) precisi dettami di atteggiamenti e costumi.

Infine si arriva ad un ascensore: le luci si spengono e le suggestive musiche di Akos Kovàcs fanno da sottofondo alla testimonianza di un ex boia che scorre sullo schermo, mentre si penetra nelle carceri, una sequenza di anfratti minuscoli, dove i prigionieri politici del regime comunista erano relegati, aspettando la fine.

Altrettante stanze sotterranee rivelano gli strumenti utilizzati per infliggere dolore e per far confessare i rei, spesso con accuse infondate, strappate alle grida strazianti. Forche di legno e cappi sono ben visibili nelle piccole celle, dove un’atmosfera angosciante fende l’aria già opprimente.

Si esce dal museo con una sensazione diversa rispetto a quella che di solito si accompagna al momento che segue la visione di un’esposizione: normalmente ci si sente arricchiti, ma in questo caso ci si sente svuotati, incapaci di parlare o di riflettere. Forse tacere è l’unico modo di restituire dignità a ciò che si è visto, compartecipi del dolore altrui, ormai passato ma mai troppo lontano.

Quei volti che dalle fotografie sembrano così vivi, si trasferiscono sui corpi laceri e stanchi che non ci sono, ma che pur si immaginano lì in quelle celle fredde ed asettiche, mentre il viaggiatore, pronto a passare oltre, si allontana silenzioso da quelle rovine dolorose.