La denuncia. Senza acqua non c’è vita

Senza acqua non c’è vita

di Antonietta Montagano

La superficie terrestre è ricoperta per il 71% d’acqua, quasi tutta salata: solo lo 0,3% è potabile ed è  localizzata in fiumi e laghi, quindi potenzialmente disponibile. L’acqua perciò è un Bene raro.

Negli ultimi decenni l’acqua, elemento vitale per l’umanità, si è però trasformata in una risorsa strategica. Le grandi multinazionali come al solito hanno fiutato l’affare, e ne hanno ottenuto la gestione, tramutandola così da risorsa primaria in bene di consumo.

Senza acqua non c’è vita: com’è possibile che un Bene di tutti sia stato privatizzato?

Ecco le fasi storiche della privatizzazione. Ancora negli anni ‘50 l’acqua sembrava essere una risorsa inesauribile e di facile reperimento, nessuno si preoccupava ancora dell’inquinamento e della tutela dell’Ambiente.

Negli anni ‘80, quando la crescente severità delle norme europee, il disinteresse delle pubbliche amministrazioni a investire per migliorare lo standard del servizio, l’aumento del deficit, finirono per favorire le multinazionali che si trovarono ad agire in un regime di sostanziale monopolio. L’effetto fu  l’aumento delle tariffe, cui però non seguì  il tanto auspicato miglioramento della rete idrica.

Così  anche in Italia, che ricordiamo essere – con 1.200 metri cubi d’acqua annui pro capite – il primo Stato in Europa e il terzo nel mondo per consumi.

Originariamente la gestione delle risorse idriche del nostro Paese era regolamentato da un catasto delle utenze delegato a Province e Regioni, sotto il controllo statale. Nei primi anni ‘80 la normativa fu integrata con norme volte a tutelare gli aspetti ambientali, ma il monopolio statale nella gestione del servizio e nella determinazione delle tariffe rimase invariata.

La situazione cambiò  negli anni ‘90 con l’entrata in vigore del D.L. 5 gennaio 1994 n. 36, Disposizioni in materia di risorse idriche (c.d. legge Galli), che di fatto diede inizio alla privatizzazione del settore. I servizi idrici furono  riorganizzati sulla base di Ambiti Territoriali Ottimali (ATO), la cui competenza venne  attribuita alle Regioni, Province e Comuni.

L’intento della legge era  quello di riorganizzare un servizio, caratterizzato da una frammentazione di competenze e da un elevato spreco di risorse, sia in termini di perdite della rete idrica sia in termini finanziari.

Successivamente venne inserita nella legge finanziaria del 2002 (D.L. 28 dicembre 2001 n. 448) una norma, l’art. 35, che abroga il testo originario, stabilendo  che l’erogazione del servizi debba avvenire in regime di concorrenza, conferendo la titolarità del servizio a società di capitale individuate attraverso l’espletamento di gare a evidenza pubblica.

L’art. 35, indicando solamente le società di capitali, escludeva tutte le società che gestivano i servizi in virtù di un affidamento diretto, tagliando fuori di fatto tutte le aziende pubbliche.

Le recenti normative hanno trasformato il sistema pubblico, in cui lo Stato era sostanzialmente l’unico operatore, in uno misto con poche grandi multinazionali, nel quale la componente finanziaria è molto accentuata.

In un sistema di questo tipo l’acqua cessa di essere considerata una risorsa fondamentale per la vita,  si trasforma in un  bene di consumo e, come tale, assoggettato alle dinamiche del mercato finanziario. Il prezzo dell’acqua viene a incorporare, oltre ai costi, anche i profitti che qualsiasi azienda si prefigge.

L’acqua, cioè il diritto alla vita, in un regime oligopolistico di mercato, è divenuto così un bene  soggetto a  speculazione.

È meramente una questione etica che nasce dalla domanda: è lecito lucrare, trarre guadagno, dalla fornitura di beni indispensabili alla vita?  Secondo le normative vigenti invece l’acqua in Italia e altrove è considerata non più un bene sociale o una risorsa ma bensì un bene economico il cui valore deve essere determinato sulla base del giusto prezzo, fissato dal mercato nell’ambito della libera concorrenza.

Allora bisogna chiedersi: quanto contano i 26 milioni di italiani che nel lontano giugno del 2011 votarono SÍ ai due referendum sull’acqua pubblica?

A questa domanda ha risposto lo Stato: la gestione dei servizi idrici non deve essere pubblica, ma di mercato. La Camera discute un ddl di iniziativa popolare presentato nel 2007. Il cuore del ddl è l’articolo 6: niente Spa pubblico-privato. Gli enti devono adeguarsi entro dodici mesi.

Questa legge non piace, specialmente a due deputati del PD, che con due emendamenti  chiedono di sopprimere l’articolo 6, cioè il cuore della legge.

Punto critico del ddl Daga è anche l’articolo 12, dove si parla di fondi. L’Autorità per l’Energia ha calcolato i soldi necessari: 65 miliardi in 30 anni. Eppure secondo il modello economico Uel’Italia non può fare investimenti così importanti. L’appoggio del governo alla cancellazione della volontà popolare espressa attraverso il Referendum a questo punto è palese.

Il testo del decreto-legge “Sblocca Italia” del 2014 indica l’obiettivo della sua azione nella concentrazione dei servizi pubblici locali nelle mani di poche grandi multi-utility capaci di competere all’estero. A livello normativo, tra l’altro, la cosa viene incentivata grazie alla previsione che gestore unico – obbligatorio per ogni ambito territoriale – divenga chi ha già in mano il servizio «… per almeno il 25 % della popolazione».

Si passa poi alla Legge di Stabilità che incentiva i Comuni a privatizzare i servizi pubblici a rete attraverso sconti sul Patto di Stabilità interno. Ora un decreto attuativo della riforma Madia della P.A.,  oltre a spingere sulle fusioni, cancella anche l’altro referendum, quello sulla tariffa: si dovrà tener conto della «… adeguatezza della remunerazione del capitale investito, coerente con le prevalenti condizioni di mercato».

In definitiva, ancora una volta la volontà del popolo, cui ben due referendum hanno dato voce, non ha contato nulla.