L’origine della collusione tra Stato e camorra
di Francesco De Crescenzo
Ogni giorno attraverso giornali e televisioni, ascoltiamo e leggiamo di episodi che hanno a che fare con associazioni criminali come camorra, mafia, ‘ndrangheta e sacra corona unita. È da così tanto tempo che ne sentiamo parlare, che abbiamo finito per credere che queste associazioni criminali siano un male endemico del nostro Sud, ma non è così.
Già nel 1978 Rocco Chinnici, magistrato vittima di cosa nostra e ideatore del pool antimafia, durante un incontro di studio per magistrati organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura a Grottaferrata, si esprimeva così: «Riprendendo il filo del nostro discorso, prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, prima dell’unificazione, non era mai esistita in Sicilia». Più avanti aggiunge: «La mafia … nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia».
In pratica la mafia, che esisteva in Sicilia prima dell’unità nazionale è da paragonarsi a quella descritta dal Manzoni in I promessi sposi: la differenza è puramente di carattere etimologico. Inoltre nel romanzo Don Rodrigo aveva i suoi “bravi” mentre i baroni siciliani avevano i “picciotti”, una diversità di carattere geografico, ma anche temporale: il Manzoni ambientò la storia intorno al 1630.
Una delle poche, forse l’unica, associazione criminale, nata prima dell’unità d’Italia è la camorra. Era un’organizzazione piramidale con al vertice il capintesta, ma veniva così strettamente controllata dalla polizia borbonica che i suoi traffici e interessi si limitavano a cose di scarsa importanza. I camorristi temevano così tanto i poliziotti borbonici da soprannominarli “i feroci”.
Ma come, quando e perché, questa organizzazione ha iniziato ad acquisire fama e potere, fino a diventare quel cancro sociale che oggi conosciamo?
Alla vigilia del 7 settembre 1860 Garibaldi doveva entrare a Napoli per prendere possesso della Capitale del Regno delle Due Sicilie. Il Re Francesco II di Borbone era partito il giorno prima per risparmiare ai suoi sudditi una guerra civile, lasciando l’incarico di salvaguardare l’ordine pubblico al Prefetto di Polizia Liborio Romano, il quale però già da tempo aveva attuato le sue contromisure per permettere alnizzardo di entrare indisturbato in città.

Il capintesta della camorra Tore ‘e Criscienzo, alias Salvatore De Crescenzo, ebbe senz’altro un ruolo chiave in quel frangente, ma il fatto che fosse un malvivente fa di lui un personaggio “scomodo” per la storiografia ufficiale. Sarebbe stato infatti imbarazzante ammettere l’importanza del suo contributo alla causa unitaria, avrebbe significato avallare la collusione Stato – camorra.
E proprio a lui si rivolse Liborio Romano per evitare disordini nel passaggio dei poteri dal governo borbonico al dittatore Garibaldi, tant’è che gli affidò l’incarico di comandante della nuova Polizia.
Grazie a Tore ‘e Criscienzo l’ordine pubblico a Napoli fu ripristinato totalmente e in breve tempo, a parte alcuni foschi episodi frutto di vendette personali. Così Garibaldi poté giungere indisturbato da Salerno a Napoli in treno.
In un brano tratto da La fine di un Regno, un saggio pubblicato nel 1909 da Raffaele De Cesare, senatore del Regno d’Italia, si legge: «Garibaldi, richiesto dove volesse alloggiare a Napoli, rispose: Io vado dove voglio; solo desidero, appena arrivato, di visitar San Gennaro.
Dopo Portici, il treno si fermò bruscamente. Tutti si affacciarono agli sportelli per vedere che cos’era, e videro un ufficiale di marina che s’avanzava, correndo e gridando: Dov’è Garibaldi? Garibaldi rispose: Dev’essere il capitano del Calatafimi, lo facciano venire. Appena giunto, il capitano, che non era quello del Calatafimi, ansante per la corsa fatta, disse al dittatore: Lei dove va? È impossibile ch’entri in Napoli; vi sono i cannoni borbonici puntati contro la stazione. E Garibaldi, tranquillo: Ma che cannoni! Quando il popolo accoglie in questo modo, non vi son cannoni; avanti… Presso alla stazione di Napoli, il De Sauget, vedendo molti operai ferroviari, disse al Rendina: È imprudente far discendere Garibaldi in mezzo a costoro, che son tutti soldati congedati e impiegati borbonici; appena il treno si fermerà, corri fuori la stazione e fa entrare il primo battaglione di guardia nazionale, che troverai, perché faccia cordone; io pregherò Garibaldi di attendere.
Ma, fermato appena il treno, Garibaldi disse: Scendo un momento per soddisfare un piccolo bisogno; e mentre Rendina saltava giù da uno sportello, per eseguire l’ordine del De Sauget, Garibaldi scese dallo sportello opposto; e celatesi per un momento, ricomparve in mezzo a tutti, calmo e bonario.
Don Liborio era alla stazione coi direttori De Cesare e Giacchi, e nessun ministro. Era il tocco e mezzo dopo mezzogiorno. Domenico Ferrante li presentò a Garibaldi; e il Romano recitò i primi periodi di un indirizzo, che poi fu stampato e diffuso.
Già fin dalle 10 della mattina si raccoglievano nelle vie, che da Toledo e da Chiaia vanno alla stazione, gruppi di popolani con bandiere d’ogni grandezza, armi e bastoni enormi. Si assisteva a scene esilaranti e un po’ grottesche.
La nota popolana, detta la Sangiovannara, al secolo Marianna De Crescenzo cugina di Tore ‘e Criscienzo, andava anche lei in carrozza alla ferrovia, seguita da gran folla di gente della Pignasecca e di donne armate e convulse: tutte scene, che ricordavano i momenti più folli della rivoluzione francese …»
Tra le suddette “signore” spiccano i nomi di:Rosa ’a pazza (per via delle sue stranezze), Luisella lun’aggiorno (perché riceveva i clienti in una stanza dove i lumini erano sempre accesi, anche di giorno), Nannarella quattro rane (perché le bastavano quattro monetine, appunto, per saldare il conto della prestazione) e, inghirlandata come un albero di Natale, la già citata Marianna De Crescenzo, la Sangiovannara, perché era nata nel rione di San Giovanni a Teduccio, sulla strada per Portici.
Delle quattro donne, la più importante era lei. Giovane vedova di un soldato borbonico, aveva messo su nel quartiere Pignasecca una taverna, diventata ben presto il covo della criminalità e del malaffare.
Per dimostrare la sua riconoscenza a queste donne, Garibaldi concesse loro un vitalizio di 12 ducati mensili (circa 5,4 milioni di lire). Insieme ad esse vanno citate anche Antonietta Pace, Carmela Fucitano, Costanza Leipnecher e Pasquarella Proto.
Marianna De Crescenzo, per non arrecare offesa a Tore ‘e Criscienzo, sul documento ufficiale della concessione del vitalizio venne indicata con il solo soprannome di Sangiovannara, dato che il cognome De Crescenzo era ad uso esclusivo di Tore in quanto capo dell’organizzazione. Questo si evince sia dai documenti custoditi nell’archivio storico di Napoli sia dal libro di Aldo Servidio edito da Guida, L’imbroglio nazionale – Unità e unificazione dell’Italia, 1860-2000.
Inoltre, lo stesso Garibaldi, operando sulle rendite confiscate con il decreto del 23 ottobre del 1860 alla famiglia Borbone (leggi: patrimonio familiare, restato distinto, come sempre in 126 anni, dalle pur fornite casse statali, al punto da contenere persinole doti nuziali delle figlie di Ferdinando II) mise a disposizione della camorra un asse di 75mila ducati, (quasi 34 miliardi di lire) da distribuire in tre anni ai bisognosi del popolo. La cifra di per sé non era particolarmente rilevante, soprattutto se confrontata con gli sperperi perpetrati in poco più di 50 giorni di dittatura.
Nei mesi, e negli anni a seguire, Tore ‘e Criscienzo divenne un personaggio sempre più scomodo per il neonato regno d’Italia, al punto che anche lui cadde nelle maglie della legge Pica, nata per reprimere il così detto brigantaggio post unitario.
Ma Tore, sebbene semianalfabeta, era stato abbastanza furbo da conservare documenti compromettenti che testimoniavano appunto gli accordi tra il nuovo stato e la camorra. Così fu scarcerato e inviato a domicilio coatto dove poté curare gli affari della sua organizzazione.
Possiamo quindi dire che in quel fatidico 7 settembre 1860 non solo furono aperte le porte di Napoli a Garibaldi ma che rese possibile che la camorra man mano assumesse un potere tale da diventare l’organizzazione spietata, il cancro sociale che oggi conosciamo. Come la mafia in Sicilia, anche la camorra campana è figlia di questa Italia, nata male e cresciuta peggio.